Comment faire?
Vent’anni. Vent’anni di controrivoluzione.
Di controrivoluzione preventiva.
In Italia.
E altrove.
Vent’anni di un sonno irto di griglie, popolato di vigili.
Di un sonno dei corpi, imposto dal coprifuoco.
Vent’anni. Il passato non passa. Perché la guerra continua.
Si ramifica. Si prolunga.
In un reticolato mondiale di dispositivi locali.
In un’inedita calibrazione delle soggettività.
In una nuova pace di superficie.
Una pace armata
ben fatta
per coprire lo svolgimento di un’impercettibile
guerra civile.
Vent’anni fa c’era
il punk, il movimento del ’77, l’area dell’autonomia,
gli indiani metropolitani e la guerriglia diffusa.
Di colpo sorgeva,
come uscito da qualche regione sotterranea
della civiltà,
tutto un contro-mondo di soggettività
che non volevano più consumare, che non volevano
più produrre,
che non volevano neanche più essere delle soggettività.
La rivoluzione era molecolare, la controrivoluzione
non fu da meno.
Si dispose in modo offensivo,
poi durevole,
tutta una complessa macchina per neutralizzare
ciò che era portatore d’intensità.
Una macchina per smorzare
tutto ciò che avrebbe potuto esplodere.
Tutti gli individui a rischio,
i corpi indocili,
le aggregazioni umane autonome.
Poi ci furono vent’anni di stupidità, di volgarità, d’isolamento
e di desolazione.
Come fare?
Alzarsi. Alzare la testa. Per scelta o per necessità. Poco importa, in realtà, ormai.
Guardarsi negli occhi e dirsi che si ricomincia.
Che tutti lo sappiano, al più presto.
Ricominciamo.
Finita la resistenza passiva, l’esilio interiore, il conflitto
per sottrazione, la sopravvivenza. Ricominciamo. In
vent’anni, abbiamo avuto il tempo di vedere. Abbiamo
capito. La demokrazia per tutti, la lotta «contro il terrorismo»,
le stragi di Stato, la ristrutturazione capitalista e la sua
Grande Opera di epurazione sociale,
per selezione,
per precarizzazione,
per normalizzazione,
per «modernizzazione».
Abbiamo visto, abbiamo capito. I metodi e i fini. Il destino
che ci riservano. Quello che ci negano. Lo stato di
eccezione. Le leggi che mettono la polizia, l’amministrazione,
la magistratura al di sopra delle leggi. La giuridicizzazione,
la psichiatrizzazione, la medicalizzazione di
tutto quel che esce dalla norma. Di tutto ciò che sfugge.
Abbiamo visto. Abbiamo capito. I metodi e i fini.
Quando il potere stabilisce in tempo reale
la sua legittimità,
quando la sua violenza diventa preventiva
e il suo diritto è un «diritto d’ingerenza»,
allora non serve più avere ragione. Avere ragione contro di lui.
Bisogna essere più forti o più astuti. È per questo,
anche per questo,
che ricominciamo.
Ricominciare non è mai ricominciare qualcosa. Né riprendere
una cosa al punto in cui la si era lasciata. Quel
che si ricomincia è sempre altro. È sempre inaudito.
Perché non è il passato che ci spinge a farlo, ma precisamente quel che in esso
non è
avvenuto.
E perché così siamo noi stessi, allora, che ricominciamo.
Ricominciare vuol dire: uscire dalla sospensione. Ristabilire
il contatto tra i nostri divenire.
Partire,
di nuovo,
da dove siamo,
ora.
Per esempio, ci sono dei tiri
che non ci giocheranno più.
La storia della «società». Da trasformare.
Da distruggere.
Da rendere migliore.
La storia del patto sociale. Che alcuni romperebbero,
mentre gli altri possono fingere di «restaurarlo».
Questi tiri non ce li giocheranno più.
Bisogna essere un elemento militante della piccola
borghesia planetaria,
bisogna essere veramente un cittadino,
per non vedere che non esiste più
la società.
Che è implosa. Che non è altro che un pretesto per il
terrore di quelli che dicono di rap/presentarla.
Lei che si è assentata.
Tutto ciò che è sociale ci è divenuto estraneo.
Ci consideriamo assolutamente svincolati da ogni obbligo,
da ogni prerogativa, da ogni appartenenza
sociale.
«La società»
è il nome che spesso è stato dato all’Irreparabile
per quelli che volevano farne anche
l’Inassumibile.
Chi rifiuta questo inganno dovrà fare
un passo di lato.
Operare
un leggero spostamento
dalla logica comune
dell’Impero e della sua contestazione,
quella della mobilitazione,
dalla loro comune temporalità,
quella dell’urgenza.
Ricominciare vuol dire: abitare questo scarto. Assumere
la schizofrenia capitalista nel senso di una crescente
facoltà di desoggettivazione.
Disertare ma tenendosi le armi.
Fuggire impercettibilmente.
Ricominciare vuol dire: raggiungere la secessione sociale, l’opacità, entrare
in smobilitazione,
sottraendo oggi a questa o a quell'altra rete imperiale di produzione-consumo i mezzi per vivere e lottare
per poter,
al momento stabilito,
distruggerla.
Noi parliamo di una nuova guerra,
di una nuova guerra di partigiani. Senza fronte né
uniformi, senza esercito né battaglia decisiva.
Una guerra i cui focolai si sviluppano lontano
dai flussi mercantili anche se sono collegati a essi.
Noi parliamo di una guerra tutta latente. Che ha
il tempo.
Di una guerra di posizione.
Che si fa là dove siamo.
In nome di nessuno.
In nome della nostra stessa esistenza,
che non ha nome.
Operare questo leggero spostamento.
Non temere più il proprio tempo.
«Non temere il proprio tempo è una questione di
spazio».
Nello squatt. Nell’orgia. Nello scontro. Nel treno o
nel villaggio occupato. Alla ricerca di un free party introvabile
in mezzo a sconosciuti. Faccio l’esperienza
di questo leggero spostamento. L’esperienza
della mia desoggettivazione. Io divento
una singolarità qualunque. Un gioco s’insinua tra la
mia presenza e tutto l’apparato di qualità
che ordinariamente mi vengono attribuite.
Negli occhi di un essere che, presente, vuole stimarmi
per quello che sono, assaporo la delusione, la sua delusione
di vedermi diventato così comune, così perfettamente
accessibile. Nei gesti di un altro c’è un’inattesa complicità.
Tutto quello che mi isola come soggetto, come corpo
dotato di una configurazione pubblica
di attributi, sento che si scioglie. I corpi si sfrangiano
al loro limite. Al loro limite,
si fanno indistinti. Quartiere dopo quartiere, il qualunque
mina l’equivalenza. E io raggiungo
una nudità nuova,
una nudità impropria, come vestita d’amore.
Si evade mai soli dalla prigione dell’Io?
Nello squatt. Nell’orgia. Nello scontro. Nel treno o
nel villaggio occupato. Noi ci ritroviamo.
Noi ci ritroviamo
tra singolarità qualunque. Cioè
non sulla base di una comune appartenenza,
ma di una comune presenza.
È questo
il nostro bisogno di comunismo. Il bisogno di spazi notturni,
in cui possiamo
ritrovarci
al di là
dei nostri predicati.
Al di là della tirannia del riconoscimento. Che impone
il ri/conoscimento come distanza finale tra i corpi.
Come ineluttabile separazione.
Tutto ciò che mi riconoscono – il fidanzato, la famiglia,
l’ambiente, l’impresa, lo Stato, l’opinione – è ciò
grazie al quale credono di tenermi.
Con il richiamo costante a quello che sono, alle mie
qualità, vorrebbero astrarmi da ogni situazione, vorrebbero
estorcermi in ogni circostanza una fedeltà a me
stessa che è una fedeltà ai miei predicati.
Ci si aspetta da me che mi comporti come un uomo,
come un impiegato, come un disoccupato, come una
madre, come un militante, come un filosofo.
Vogliono contenere nei limiti di un’identità il corso
imprevedibile dei miei divenire.
Vogliono convertirmi alla religione di una coerenza
che hanno scelto per me.
Più sono riconosciuta, più i miei gesti sono impacciati,
interiormente impacciati. Eccomi presa nelle maglie ultraserrate
del nuovo potere. Tra i fili impalpabili della
nuova polizia: la polizia imperiale delle qualità.
C’è tutta una rete di dispositivi in cui mi lascio colare
per «integrarmi», e che mi incorporano queste qualità.
Tutto un piccolo sistema di schedature, d’identificazione,
di sorveglianza reciproca.
Tutta una prescrizione diffusa dell’assenza.
Tutto un apparato di controllo comporta/mentale,
che mira al panottico, alla privatizzazione trasparenziale,
all’atomizzazione.
E in cui io mi dibatto.
Ho bisogno di divenire anonimo. Per essere presente.
Più sono anonimo, più sono presente.
Ho bisogno di zone d’indistinzione
per accedere al Comune.
Per non riconoscermi più nel mio nome. Per non
sentire nel mio nome nient’altro
che la voce che lo chiama.
Per far consistere il come degli esseri,
non in quello che sono,
ma nel come sono quello che sono.
La loro forma di vita.
Ho bisogno di zone di opacità in cui gli attributi,
anche criminali, anche geniali,
non separino più i corpi.
Divenire qualunque. Divenire una singolarità qualunque,
non ci è dato. Sempre possibile, ma mai dato.
C’è una politica della singolarità qualunque.
Che consiste nello strappare all’Impero
le condizioni e i mezzi,
anche interstiziali,
di sperimentarsi tale.
È una politica, perché suppone una capacità di scontro,
e che una nuova aggregazione umana
le corrisponda.
Politica della singolarità qualunque: creare degli spazi
in cui nessun atto è più assegnabile a nessun corpo dato.
In cui i corpi ritrovino l’attitudine al gesto che la sapiente
distribuzione dei dispositivi metropolitani – computer,
automobili, scuole, videocamere, cellulari, palestre,
ospedali, televisioni, cinema ecc. – gli aveva sottratto.
Riconoscendoli.
Immobilizzandoli.
Facendoli girare a vuoto.
Facendo esistere la testa separatamente dal corpo.
Politica della singolarità qualunque.
Un divenire-qualunque è più rivoluzionario di ogni
essere-qualunque.
Liberare spazi ci libera cento volte più di qualsiasi
«spazio liberato».
Più che a mettere in atto un potere, io godo a
mettere in circolazione la mia potenza.
La politica della singolarità qualunque risiede nell’offensiva.
Nelle circostanze, i momenti e i luoghi in cui
saranno strappati
le circostanze, i momenti e i luoghi
di un tale anonimato,
di un arresto momentaneo in stato di semplicità,
l’occasione di estrarre da tutte le nostre forme
la pura adeguazione alla presenza,
l’occasione di esserci, finalmente.
Come fare? Non Che fare, ma Come fare? La questione dei mezzi.
Non quella dei fini, degli obiettivi,
di quel che c’è da fare, strategicamente, in assoluto.
La questione di ciò che si può fare, tatticamente, in situazione,
e dell’acquisizione di questa potenza.
Come fare? Come disertare? Come funziona? Come
coniugare le mie ferite e il comunismo? Come restare in guerra senza perdere la tenerezza?
La questione è tecnica. Non è un problema. I problemi
sono redditizi.
Nutrono gli esperti.
Una questione.
Tecnica. Che si sdoppia in questione di tecniche di
trasmissione di queste tecniche.
Come fare? Il risultato contraddice sempre il fine.
Perché porre un fine è ancora un mezzo,
un altro mezzo.
Che fare? Babeuf, Černiševskij, Lenin. La virilità
classica reclama un analgesico, un miraggio, qualche
cosa. Un mezzo per ignorarsi ancora un po’. Come presenza.
Come forma di vita. Come essere in situazione, dotato
d’inclinazioni.
D’inclinazioni determinate.
Che fare? Il volontarismo come ultimo nichilismo.
Come nichilismo proprio
della virilità classica.
Che fare? La risposta è semplice: sottomettersi ancora
una volta alla logica della mobilitazione, alla temporalità
dell’urgenza. Sotto pretesto di ribellione. Porre dei
fini, delle parole. Tendere verso il loro compimento. Il compimento delle parole. Aspettando, rimandare l’esistenza a più tardi.
Mettersi tra parentesi. Alloggiare nell’eccezione
di sé. In disparte dal tempo. Che passa. Che
non passa. Che si ferma. Fino a… Fino al prossimo. Fine.
Che fare? Detto altrimenti: inutile vivere. Tutto quel
che non avete vissuto la Storia ve lo renderà.
Che fare? È l’oblio di sé che si proietta sul mondo.
Come oblio del mondo.
Come fare? La questione del come. Non di ciò che un essere,
un gesto, una cosa è , ma di come è ciò che è. Di come
i suoi predicati si rapportano a lui.
E lui a essi.
Lasciar essere. Lasciar essere il divario tra il soggetto
e i suoi predicati. L’abisso della presenza.
Un uomo non è «un uomo». «Cavallo bianco» non è
«cavallo».
La questione del come. L’attenzione al come. L’attenzione
alla maniera in cui una donna è, e non è,
una donna – e ce ne vogliono di dispositivi per fare di
un essere di sesso femminile «una donna»,
o di un uomo con la pelle nera «un nero».
L’attenzione alla differenza etica. All’elemento etico.
Alle irriducibilità che lo attraversano. Quel che succede
tra i corpi durante un’occupazione è più interessante
dell’occupazione stessa.
Come fare? vuol dire che lo scontro militare con l’Impero
deve essere subordinato all’intensificazione delle
relazioni all’interno del nostro partito. Che il politico
non è altro che un certo grado di intensità in seno all’elemento
etico. Che la guerra rivoluzionaria non va più
confusa con la sua rappresentazione: il momento bruto
del combattimento.
La questione del come. Prestare attenzione all’accadere
delle cose, degli esseri. Al loro avvento. All’ostinata e silenziosa pregnanza della loro temporalità
sotto lo schiacciamento planetario di tutte le temporalità
da parte di quella dell’urgenza.
Il Che fare? come ignoranza programmatica di questo.
Come formula inaugurale del disamore indaffarato.
Il Che fare? ritorna. Da qualche anno. Dalla metà
degli anni Novanta, più che da dopo Seattle. Un revival
della critica fa finta di affrontare l’Impero
con gli slogan, le ricette degli anni Sessanta. Solo che
questa volta si simula.
Si simula l’innocenza, l’indignazione, la buona coscienza
e il bisogno di società. Si rimette in circolazione
tutta la vecchia gamma degli affetti socialdemocratici.
Degli affetti cristiani. E di nuovo, ci sono le manifestazioni.
Le manifestazioni ammazza-desiderio. In cui non
succede niente.
E che non manifestano più nient’altro
che l’assenza collettiva.
Per sempre.
Per quelli che hanno la nostalgia di Woodstock, della
gangia, del maggio ’68 e della militanza, ci sono i controvertici.
Ci hanno ricostruito la messa in scena, ma manca
il possibile.
Ecco che ci comanda il Che fare? oggi: andare all’altro
capo del mondo a contestare la merce globale
per tornare, dopo un gran bagno di unanimismo e di
separazione mediatizzata,
a sottomettersi alla merce locale.
Al ritorno, con la foto sul giornale… Tutti soli insieme!…
C’era una volta… Che gioventù!…
Peccato per i pochi corpi vivi, perduti lì in mezzo che
cercavano invano uno spazio per il loro desiderio.
Ritornano un po’ più annoiati. Un po’ più svuotati.
Ridotti.
Di controvertice in controvertice finiranno per capire.
Oppure no.
Non si contesta l’Impero sulla sua gestione. Non si
critica l’Impero.
Ci si oppone alle sue forze.
Là dove si è.
Dire il proprio parere su questa o quella alternativa, andare
là dove si è chiamati, non ha più senso. Perché non
c’è nessun progetto globale alternativo al progetto dell’Impero.
C’è una gestione imperiale. Ogni gestione è cattiva.
Quelli che reclamano un’altra società farebbero meglio
a cominciare a vedere che non ce ne sono più. E
forse allora smetterebbero di essere degli apprendisti
gestori.
Dei cittadini. Dei cittadini indignati.
L’ordine globale non può essere preso come nemico.
Direttamente.
Perché l’ordine globale non ha luogo. Al contrario. È
piuttosto l’ordine dei non-luoghi.
La sua perfezione non sta nel fatto di essere globale,
ma di essere globalmente locale. L’ordine globale è la congiura
di ogni evento perché è l’occupazione compiuta,
autoritaria del locale.
Non ci si oppone all’ordine globale se non localmente.
Tramite l’estensione di zone d’ombra sulle carte dell’Impero.
Tramite la loro messa in contatto progressiva.
Sotterranea.
La politica che viene. Politica dell’insurrezione locale
contro la gestione globale. Della presenza riguadagnata
sull’assenza a sé. Sull’estraneità cittadina, imperiale.
Riguadagnata col furto, la frode, il crimine, l’amicizia,
l’inimicizia, la cospirazione.
Tramite l’elaborazione di modi di vita che siano anche dei modi di lotta.
Politica dell’aver luogo.
L’Impero non ha luogo. Amministra l’assenza facendo
planare ovunque la minaccia palpabile dell’intervento
poliziesco. Chi cerca nell’Impero un avversario con
cui misurarsi troverà l’annientamento preventivo.
Essere percepiti ormai è essere vinti.
Imparare a diventare indiscernibili. A confonderci.
Riprendere gusto
all’anonimato,
alla promiscuità.
Rinunciare alla distinzione,
per giocare la repressione:
creare le condizioni più favorevoli per lo scontro.
Divenire astuti. Divenire impietosi. E per questo
divenire qualunque.
Come fare? è la domanda dei bambini perduti. Quelli a
cui non è stato detto. Quelli che hanno gesti insicuri. A
cui niente è stato regalato. Quelli la cui creaturalità e la
cui erranza non smettono di tradirsi.
La rivolta che viene è la rivolta dei bambini perduti.
Il filo della trasmissione storica è stato rotto. Anche la
tradizione rivoluzionaria ci lascia orfani. Il movimento
operaio soprattutto. Il movimento operaio che si è capovolto
in strumento di un’integrazione superiore al Processo.
Al nuovo Processo cibernetico di valorizzazione
sociale.
Nel 1978, è in nome suo che il Pci, il «partito dalle
mani pulite», lanciava la caccia
all’autonomo.
In nome della sua concezione classista del proletariato,
della sua mistica della società,
del rispetto del lavoro, dell’utile e della decenza.
In nome della difesa delle «conquiste democratiche» e dello Stato di diritto.
Il movimento operaio che sarebbe sopravvissuto nell’operaismo.
Unica critica esistente del capitalismo dal punto di
vista della Mobilitazione Totale.
Dottrina spaventosa e paradossale,
che avrà salvato l’oggettivismo marxista parlando
solo di «soggettività».
Che avrà portato a un inedito raffinamento
della negazione del come.
Il riassorbimento del gesto nel suo prodotto.
L’orticaria del futuro anteriore.
Di quel che ogni cosa sarà stata.
La critica è diventata vana. La critica è diventata vana
perché equivale a un’assenza. Quanto all’ordine dominante,
tutti sanno come comportarsi. Noi non abbiamo
più bisogno di teoria critica. Non abbiamo più bisogno
di professori. La critica funziona per il dominio, ormai.
Anche la critica del dominio.
Riproduce l’assenza. Ci parla da là dove non siamo.
Ci spinge altrove. Ci consuma. È vigliacca.
E resta ben al riparo
quando ci manda alla carneficina.
Segretamente innamorata del suo oggetto, non smette
di mentirci.
Perciò gli idilli tra intellettuali e proletari impegnati
sono così brevi.
Questi matrimoni di ragione in cui non si ha la stessa
idea né del piacere né della libertà.
Piuttosto che di nuove critiche, è di nuove cartografie
che abbiamo bisogno.
Non di cartografie dell’Impero, ma di linee di fuga
per uscirne.
Come fare? Abbiamo bisogno di mappe. Non di
mappe di quello che sta fuori dalle mappe. Ma di mappe di navigazione.
Di carte marittime. Di strumenti d’orientamento.
Che non cerchino di dire, di rappresentare quel
che c’è all’interno dei differenti arcipelaghi della diserzione,
ma ci indichino come raggiungerli.
Dei portolani.
Tiqqun